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Dialetto cultura e tradizioni popolari

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La lotta tra avolesi e netini per San Corrado

IL SANTO CONTESO

di  Sebastiano Rizza

Accadeva  spesso  nei  tempi  andati che due borghi di uno stesso abitato o due  abitati  vicini litigassero  per  un santo. A questa singolare costumanza non sfuggirono i paesi di Avola e Noto, ambedue in provincia di Siracusa, che alla morte d’un eremita, Corrado, si videro l’un contro l’altro a disputarsene le sacre spoglie. Corrado, siciliano non era, ma scelse di vivere da queste parti «pir meglu serviri  a  deu»1.  Nato  a  Piacenza  nel 1290 da nobile famiglia della stirpe dei Confalonieri, dedicò la giovinezza alle armi e alla caccia in una cornice di particolare agiatezza. Sposò una certa Eufrosina  con  la  quale  condusse  una vita tranquilla. Anche   quel   giorno   del   1313   la battuta di caccia avrebbe assunto un aspetto consueto se il giovane cavaliere non  avesse  ordinato  di  appiccare  il fuoco ai cespugli per snidare la selvaggina. Perdutone il controllo, forse per l’aridità del suolo o per il soffiar del vento, quei focherelli si trasformarono in un pauroso incendio, portando la distruzione per la campagna e i caseggiati circostanti. Sebbene al rientro dalla caccia il cavaliere non avesse fatto parola alcuna, l’accaduto non passò sotto silenzio: si cercò il colpevole, che le guardie di Galeazzo Visconti credettero d’individuare in un povero contadino che si trovava per caso nei paraggi e che, imprigionato, venne condannato a morte.

Fu a questo punto che il Confalonieri, preso da rimorso, si presentò al signore di Piacenza, confessandosi colpevole e dicendosi disposto a risarcire i danni per intero. Per lui il destino sembrava ormai compiersi: vendette tutti i suoi beni mentre nel suo cuore maturò la decisione di abbracciare la vita eremitica. Di lì a poco anche la moglie scelse la vita meditativa entrando nel monastero francescano di Piacenza. Storia e leggenda sembrano ormai intrecciarsi in una fantasmagoria di fatti capaci di dare lustro alla figura dell’eremita, e la fantasia non disdegnò d’inventare storielle curiose che non mancarono e, forse, non mancano tuttora di toccare il cuore di quanti le ascoltano con  animo  semplice.  Anche  l’addio  fra  Corrado  e  Eufrosina  si  tinse  dei  colori dell’aneddoto. Vediamo così una Eufrosina che chiede al marito quando si sarebbero rivisti. E lui, staccato ormai dalle cose terrene e con lo sguardo perso nell’infinito alla ricerca di un segno superiore, rispondere candidamente: «Quannu l’acqua acciana nô panaru»2. Da quel momento la vita di Corrado sarà un lungo peregrinare che lo porterà dapprima a Roma e, poi, per mare alla volta della Sicilia. Il nobile netino Andriotta Rapi così descrisse in versi, sul finire del Quattrocento o agli inizi del Cinquecento, il viaggio dell’eremita ne La vita di lo beato Corrado3:

Et a Ruma vini a entrarj undi ben si cunfissau gran dulgency si pigliau quillu nobili cavalerj. Tuttu adio lu so penserj et del restu non curava

a una barca si inbarcava dirro la via ck ipso fici In quilla chitati felichj

di palermu sindi andau 4.

 Ma la città felice di Palermo lo soddisferà ben poco, e la sua anima inquieta alla ricerca di una pace che provenga dall’alto e insieme dalla fratellanza umana gli farà volgere lo sguardo verso una nuova mèta, per cui

cussi misi adimantarj undi sunu bona gentj fullj dittu incontinentj

jn val di Notu su virtusj 5. 

Si può immaginare la gioia di Corrado nell’apprendere tale notizia; ma i guai per lui non erano finiti: e prima di raggiungere la mèta agognata dovette subire l’umiliazione e il dileggio della gente di Palazzolo, la quale non si peritò di fargli del male. «Et da poy - narra un manoscritto del XIV secolo - frati currau vindi a la terra di nothu, undi chi havia multi boni homini e devoti pirsuni: Et li gitadini di la terra di nothu appiru grandi

consolacioni di quistu homu ki paria di bona et honesta vita»6.

Di questo manoscritto, dal quale citeremo ampiamente per rendere più colorito il racconto, e che a detta del canonico Pugliese fu redatto subito dopo la morte del Santo per essere conservato nell’urna che racchiudono le sue spoglie mortali e utilizzato durante il processo di canonizzazione, fu autore fra Michele Lombardo Vetrano, compagno di Corrado Confalonieri, o P. Eugenio Guiti7, confessore dello stesso, o, forse,  parteciparono  entrambi  alla  stesura.  Di esso per lungo tempo si persero le tracce finché dopo      laboriose         ricerche           nel       secolo  scorso Corrado Avolio lo rinvenne insieme ad altri manoscritti di data posteriore in un grosso volume custodito nella cattedrale di Noto. E nella terra di Noto, ormai conosciuto e stimato da tutti, Corrado, per indicazione di un amico, un certo Joanni di Miniu, o Giovanni Mineo, si stabilì «a lu locu di li chelli (celle)», nelle vicinanze della chiesa di S. Maria del Crocifisso, dove piantò alberi e viti. Man mano che la fama di santità si spargeva per le contrade, un numero sempre crescente di devoti lo andava a visitare per rendergli omaggio e riceverne in cambio la santa benedizione. Corrado, però, non si sentiva ancora in armonia col Creatore e col creato, per cui un vago desiderio di maggiore solitudine gli attanagliava nuovamente il cuore. Quindi, dopo essersi consultato con l’amico che lo aveva preso a benvolere, decise di andarsene «a lu desertu, luntanu di la terra tri migla, ad unu locu ki havia nomu li piczi undi esti una cava, ki chi curri unu fiumi»8.

È forse in questo luogo fuori dal mondo che la fantasia popolare vide nel cuore di Corrado, ormai rotto più dalle privazioni che dagli anni, perché vecchio ancora non era, il sorgere del desiderio di rivedere la moglie. E Corrado riprese la via del ritorno. Giunto nei pressi del monastero che ospitava la moglie, si fermò e aspettò per giorni, finché in una figura sfuggente portatasi nei campi, non riconobbe le sembianze della giovane Eufrosina. Le si fece incontro e, con voce incerta, la pregò di riempirgli la fiasca dell’acqua fresca del pozzo, perché calda era l’estate e lungo il cammino. Eufrosina, imbarazzata, gli rispose di non potere esaudire il suo desiderio in quanto l’unica secchia che possedeva le era stata sottratta. «Prendi la cesta che hai dappresso e calala nel pozzo», le disse il mendicante. Eufrosina rispose all’invito e, tirandola su stracolma, lo dissetò e gli rifornì la fiasca. E mentre il mendico si allontanava, scomparendo nel nulla, le si affacciarono alla mente le parole dell’antica profezia.

 Neanche in quell’angusta grotta allargata a forza di gomiti la vita dell’eremita scorse serena: anzi, i travagli si susseguirono alle tentazioni quotidiane. Fu un venerdì di un mese non precisato che una masnada di briganti lo andarono a trovare per invitarlo a pranzo. E, distesa la tovaglia sull’erba, incominciarono ad affettare un porcellino, offrendone al Santo che accettava di buon grado. Dopo aver mangiato cominciarono, però, ad accusarlo di aver violato la legge del Signore, perché di venerdì il Cristo fu messo in croce; ma il Santo, con la beatitudine di sempre, sollevato il lembo della tovaglia, mostrò le lische di pesce che aveva messo da parte, dicendo: «Voi avete mangiato della carne: io ho mangiato del pesce»9. Anche se le furberie e le tentazioni ai danni del pover’uomo non venivano mai meno, Corrado fu sempre pronto a venire incontro ai bisogni della popolazione di Noto, salvandola nei momenti più critici, come durante la grande carestia descrittaci dall’autore dell’antico manoscritto. Corrado è sempre lì a pregare e, «novello Cristo», a moltiplicare pani per sfamare i suoi devoti più poveri e, soprattutto, i bambini.

«Un tempu essendu multa fami, ki li agenti murianu di fami, et li homini, et li donni, et li pichulilli: et multi pichulilli andavanu a lu beatu corradu, et dichenu ò patri dunani un pocu di pani, et lu beatu corradu dichia sì figlu, si a deu plachi, et dichia stati icza. Et lu beatu corradu si mictia in oracioni, subitu li vinia pani celestiali, chaskidunu di quilli pichulilli li dava una guastella, et multi homini grandi, cussì fu sintutu, ki multi chi indivenenu pichuli, et grandi, et altri pirsuni, et  illu  a  tanti  fachia  la  caritati  di  jesu  xpu  cum amuri»10.

Nonostante la ricerca della solitudine, capitava, di tanto in tanto, che Corrado scendesse in paese or per qualche commissione or per qualche amico o devoto che gli stava particolarmente a cuore. In una di queste visite, passando «pir li putighi di li custureri»11, s’imbatté  in  un  suo  devoto  che,  invitatolo  a  sedere  in  bottega,  gli  chiese  se  sapesse indicargli qualche buona medicina per il suo bimbetto di sette anni che «era ructu di li bursi di baxu»12. Il sant’uomo non si fece pregare due volte: si avvicinò al bimbetto e, sollevatigli i lembi della vesticciola, con il segno della croce lo guarì. Se l’atto diede lustro di taumaturgo al Santo e lo pose a protettore dei malati di ernia, la gente di Noto si vide imposto il soprannome etnico di nuticiani baddusi13, e non solamente per la miriade di erniosi che accorrevano dal Santo, in vita e anche dopo la morte, ad ogni ricorrenza della sua festa, ma anche o, forse, soprattutto, per la millantata nobiltà di sangue cui ogni abitante sarebbe irrimediabilmente affetto. Passarono gli anni e un giorno Corrado sentì come non mai il bisogno di confessarsi, e il padre Guiti, come di consueto, andò a trovarlo. Parlarono a lungo e alla fine il confessore gli impartì l’assoluzione. E in meno che non si dica e senza che il Guiti se ne rendesse conto, l’anacoreta spirò. Era il 19 febbraio del 1351. 

«Ora quandu illu fu trapassatu - si legge nel manoscritto -, li campani di nothu et di aula tucti accuminsaru assunari fortimenti, ki pir tali modu sunavanu li campani, ki li cordi andavanu supra li mioli et non li putenu piglari, et li popoli andavanu arrimuri di quistu miraculu, quisti homini di nothu dissiru, homu santu esti trapassatu et tutti andavanu a li chelli, lu bonu homu frati, lu quali havia nomu frati guglelmu, et dissurili, nni cridemu ki tu fussi trapassatu: nun su eo, altru esti; quandu auderu quisti paroli illi sindi andaru a li piczi e cursiruchi multi agenti armati cu balestri: et cum lanzi, et quandu junsiru à la gructa truvaru lu beatu carradu in ginuchiuni; et quandu sunaru li campani di aula li agenti di aula happiru nova di quillu beatu corradu k’era trapassatu. E parterusi a viniri pir piglarulu ananti di quilli di nothu»14.

 Or quando egli morì, le campane di Noto e di Avola incominciarono a suonare a distesa, tanto che le funi dei batacchi si libravano sopra le cicogne, senza che nessuno potesse afferrarle. Fra la popolazione si diffuse gran turbamento per questo miracolo e si sparse subito voce che un uomo santo era salito in cielo: si pensò a fra Guglielmo, che era uomo pio. Tutti corsero alla sua dimora e, vedendolo in vita, gli dissero: pensavamo che fosti tu ad esalare lultimo respiro. Non io, ma altri: rispose il frate. Quando i presenti udirono queste parole, corsero al luogo chiamato Li Pizzi. Molti accorsero armati di balestra o di lancia, e quando giunsero alla grotta trovarono il beato Corrado in ginocchio. Anche gli abitanti di Avola appresero, al suono delle campane, la notizia del trapasso e subito si misero in cammino per arrivar prima dei devoti di Noto e impossessarsi delle spoglie del beato Corrado.

Se gli avolesi accorsero in gran numero con lance e balestre, non da meno fecero i netini. Si ingaggiò ben presto una lunga e terribile battaglia, mentre sia dall’una che dall’altra parte continuavano a giungere rinforzi; ma la contesa non volgeva in favore né degli uni degli altri; anzi, stupore nello stupore, le saette tornavano a chi le lanciava senza colpire l’avversario. Le fazioni, a questo punto, capirono che il Santo non voleva spargimento di sangue, perché sia gli uni che gli altri erano figli devoti. Si concordò allora, senza obiezione alcuna, che si scegliessero quattro degli uomini più forti e valorosi sia dell’una che dell’altra parte; anzi, i netini si rimisero nella propria scelta agli avolesi, i quali non poterono non essere contenti in quanto vedevano così volgere le sorti in loro favore. Si provarono per primi gli avolesi a spostare la cassa contenente il corpo del Santo: ma per quanti sforzi facessero l’arca non si mosse d’un sol pollice. Quindi, fu la volta dei netini: e la cassa si fece miracolosamente leggiera che neanche se ne avvidero. Nel Cinquecento il sacerdote Gerolamo Pugliese così solennizzò, in ottava rima siciliana, l’avvenimento:

Li quattru Notigiani valurusi, spinsiru quella cassa allegramenti, undi li membra santissimi inclusi, eranu di Corradu piu e clementi; e caminaru poi vitturiusi, pr’andari a Notu gluriusamenti, Te Deum laudamus cantavanu in via, devoti Salmi e Laudi a Maria 15.

 A questo punto la leggenda dovrebbe aver termine se non se ne fosse aggiunta un’altra in epoca successiva: la tradizione avolese vuole che, mentre i netini trasportavano il corpo verso la città di Noto, una lavandaia avolese si avvicinasse al corteo chiedendo di poter baciare colui che in vita l’aveva tanto beneficiata. I netini acconsentirono al pio desiderio e la donna, nel baciarlo, con un morso gli strappò l’esofago, che consegnò ai sacerdoti avolesi che lo esposero in un reliquario.

Nel primo decennio di questo secolo si interessò alla leggenda  Gaetano  Gubernale, il quale rintracciò nella curia arcivescovile di Avola due documenti datati 7 ottobre e 9 ottobre  1621  dai  quali risultava che la reliquia era stata donata agli avolesi dal domenicano   Giovan   Battista da Noto, con atto pubblico rogato   dal   notaio   Giacomo Masò    di    Siracusa    in    data primo  ottobre  1621.  Sempre con i detti documenti a firma del vicario generale Franchiscus Franchino Tacciano se ne autorizzava l’esposizione e la venerazione dopo aver «esaminata la domanda et havendo riconosciuto la detta reliquia habbiamo provvisto come segue: Dicimo, commettiamo et ordinamo… vogliate permettere che detta santa reliquia di detto beato Corrado si possa exponere sop.ti in detta chiesa per essere venerata da tutti fedeli et condursi per la terra che noi ci ni diamo lauta licenza stare continuamente nel loco dove è collocata detta reliquia la lampa accesa et cossì exequirete con effetto per quanto la gratia di mosignor illustrissimo ni è cara»16. Infine, il 18 dicembre 1654, durante la sua visita pastorale, don Giovanni Antonio Capobianco, vescovo di Siracusa ne decretò l’autenticità.

 Fin dal 1516 i netini avevano sostituito il loro patrono S. Nicola di Bari17 con il beato Corrado, nonostante si fosse abbattuto su di loro l’interdetto pontificio. Vista, però, l’insistenza con la quale gli abitanti di Noto continuavano a venerare l’eremita, Leone X istituì una commissione presieduta dal vicario generale di Siracusa, Giacomo Human, affinché esaminasse i documenti per poter procedere alla canonizzazione. L’Human si recò a  Noto,  ne  vagliò  i  documenti  e  i  miracoli,  e  quindi  ordinò  che  si  aprisse  l’urna. Nell’aprirla si sprigionò un tal profumo dincenso che tutti i presenti ne rimasero profondamente colpiti, mentre il corpo del Santo non aveva minimamente subito la decomposizione.

Anche questa volta la fantasia popolare vi ricamò sopra: corse, infatti, voce che quando il vicario ne ordinò l’apertura, al posto delle ossa fu trovato del cotone. Allora il porporato, con sguardo torbo, disse che fra i presenti ci doveva essere senz’altro un incredulo. I prelati, ammutoliti, si guardarono intorno cercando di scrutare nel volto altrui i segni della colpevolezza. Tutto sembrava inspiegabile finché il vicario non ammise di aver dubitato della santità di Corrado. L’urna fu richiusa; e riapertala, tutti constatarono, e con stupore, che conteneva le sacre spoglie.

Nel 1544 Corrado fu elevato da Paolo IV agli onori dell’altare. Mentre la gente di Noto, ora come un tempo, continua a onorarlo con due grandi feste: la prima il 19 febbraio, anniversario della morte, e l’altra l’ultima domenica d’agosto dal carattere prettamente agricolo.

A questo punto non ci rimane che concludere con le parole del Pitrè che «la festa di S. Corrado, come quella di S. Agrippina, è quasi estranea alla Sicilia; ma tutti i siciliani sanno che in Avola e Noto si celebra con molta solennità»18.

 

 


NOTE al testo

L’articolo, senza le note, è precedentemente apparso sul quotidiano di Catania La Sicilia del 25 agosto 1985, p. 9.

1 «Per servire meglio Dio».

2 «Quando l’acqua si può tirare con il cestino».

3 In Corrado Avolio, Introduzione allo studio del dialetto siciliano, Palermo, 1973 [1882], p. 110-174.

4 p. 122: «In Roma entro / dove ben si confessò / grande indulgenza si pigliò / quel nobile cavaliere. / Solo a Dio rivolgeva i suoi pensieri / e del resto non si curava. / S’imbarcò su una barca / e dirò la rotta che seguì. / In quella città illustre / di Palermo se ne andò.

5 p. 122: «Così chiese / dove vive buona gente / gli fu detto incontanente / in Val di Noto son virtuosi».

6  In Corrado Avolio, Canti popolari di Noto, rist. anst. Bologna, Forni, 1970, p. 357. «Quindi fra Corrado venne alla Terra di Noto, dove viveva gente buona e devota: i cittadini di Noto ricevettero gran conforto da quest’uomo che sembrava conducesse morigerata e onesta vita».

7  Sembra che un prete con questo cognome non sia mai esisto, ma che si tratti di un’errata lettura dell’abbreviazione

pviti = previti ‘prete’.

8 «Al deserto, lontano tre miglia dalla terra [di Noto], in un luogo chiamato li Pizzi (o Pizzuni), in cui si trova una cava attorno alla quale scorre un fiume».

9 Questa storiella da me raccolta dalla viva voce di un’informatrice è riporta anche in “Archivio storico per le tradizioni popolari”, Palermo-Torino, Carlo Clausen, ott.-dic. 1894, pp. 491-492.

10  Avolio, Canti..., op. cit., p. 374. «Ci fu gran carestia, tanto che la gente moriva di fame: uomini, donne, bambini. Molti bambini si recavano dal Beato Corrado e gli dicevano: padre, dacci un po’ di pane. Il Beato Corrado diceva: sì, figlio, se a Dio piace. E diceva anche; rimani qua. Il Beato Corrado incominciava a pregare e subito scendeva il pane celeste. A ogni bambino dava così una pagnotta ed anche a molti adulti. Si sparse la voce e grandi, piccoli e persone di ogni condizione vi si recavano. Egli faceva a tanti la carità di Gesù Cristo con amore»

11 «Per le botteghe dei sarti».

12 «Era affetto da ernia scrotale».

13 Da badda ‘corpo di forma sferica’.

14 Avolio, Canti..., op. cit., p. 376. «Or quando egli morì, le campane di Noto e di Avola incominciarono a suonare a distesa, tanto che le funi dei batacchi si libravano sopra le cicogne, senza che nessuno potesse afferrarle. Fra la popolazione si diffuse gran turbamento per questo miracolo e si sparse subito voce che un uomo santo era salito in cielo: si pensò a fra Guglielmo, che era uomo pio. Tutti corsero alla sua dimora e, vedendolo in vita, gli dissero: pensavamo che fosti tu ad esalare l’ultimo respiro. Non io, ma altri: rispose il frate. Quando i presenti udirono queste parole, corsero al luogo chiamato Li Pizzi. Molti accorsero armati di balestra o di lancia, e quando giunsero alla grotta trovarono il beato Corrado in ginocchio. Anche gli abitanti di Avola appresero, al suono delle campane, la notizia del trapasso e subito si misero in cammino per arrivar prima dei devoti di Noto e impossessarsi delle spoglie del beato Corrado».

15  Riportata in Gaetano Gubernale, Leggenda e storia dell’esofago di S. Corrado, Noto, Tip. Zammit, 1914, p. 7. «I quattro valorosi netini, / spinsero festosamente la cassa, / che conteneva le sacre spoglie I di Corrado pio e clemente; / e procedettero con animo vittorioso / per giungere a Noto avvolti nella gloria. I Te Deum laudamus cantavano per la via, / devoti almi e Laudi a Maria».

16 Gubernale, Leggenda..., op. cit., p. 10.

17 Sulle tradizioni popolari, specialmente siciliane, legate a S. Nicola, rimando al mio articolo Il Santo venuto dal mare, in La Sicilia”, quotidiano di Catania, del 2 luglio 1987, p. 9, ora anche online @ http://digilander.libero.it/sicilia.cultura/ilsantovenutodalmare.pdf.

18 Giuseppe Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane, rist. anast., Palermo, Il Vespro, 1978, p. 204.

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