VITA di S. Corrado

                         

                scritta da don Salvatore Guastella, Noto 1955

     Eremo o Ritiro Inferiore del 1751    Grotta del santo, la statua opera dell'artista Pirrone

 


       

PREFAZIONE

 

Era da tempo attesa una “Vita di S. Corrado” breve e compendiosa che senza sprofondarsi nei labirinti della critica o scalare grattacieli dell’erudizione ne tracciasse il profilo luminoso e ne desse una prima conoscenza a coloro per i quali Egli è ancora un Santo da scoprire.

Volevamo toglier di mezzo le molte “Vite” del Santo, spesso scritte male e stampate peggio.

Volevamo parlare di S. Corrado ai moderni con linguaggio moderno, per dare all’esposizione anche il doveroso prestigio letterario ed artistico.

Ora che questa “Vita” viene alla luce dobbiamo essere grati a D. Salvatore Guastella, mio valido cooperatore in Cattedrale, per il decisivo concorso dato alla divulgazione di una preziosa esistenza che, per la divina spontaneità della grazia che arricchisce e feconda la Chiesa, si inserisce nel fervido moto di Apostolato e Santità dei secoli XIII e XIV, i secoli di Dante, di Francesco d’Assisi e di Caterina da Siena.

Evidentemente D. Guastella non ha voluto stendere una “Vita” del Santo nel senso rigoroso della parola, ma illuminarne i lati più rilevanti: molto meno ha voluto portare contributi nuovi alla già ampia biografia e alle questioni che da secoli restano ancora avvolte nelle ombre. S. Corrado è un santo di cui è più facile trovare lodi che dati biografici. Non una “Vita” carica di erudizione storico-ascetica dunque, ma una esposizione agile, sobria, perfino frettolosa, con lo scopo di ravvivare e presentare in efficace rilievo la figura dell’insigne Eremita e avvicinarla alle anime del nostro tempo.

Questo lo scopo, che riteniamo raggiunto.

Voglia il Cielo che il libro destinato ad andare più facilmente per le mani di tutti, possa tutti animare all’imitazione del Santo e quindi ad una vita più cristiana e perfetta.

Mons. Nunzio Zappulla

Parroco della Cattedrale

 

 

IL CAVALIERE

 

I Santi sono l’opera sovrana di Dio, che lo rivelano al mondo e ne annunziano e dilatano la gloria.

S. Corrado Confalonieri lo prova in maniera luminosa. Cogliamo i tratti più caratteristici della sua vita, ad edificazione della nostra devozione per Lui nostro Celeste Patrono.

Nasce a Piacenza, in Emilia, dalla illustre famiglia dei Confalonieri verso la fine del sec. XIII, tra il 1284 e il 1290. Secondo l’uso del tempo e la sua condizione, cresce Corrado appassionato delle armi e si diletta assai di caccia. Carattere retto e gioviale il suo, che lo fa amico sincero e cittadino integerrimo. Si impone all’ammirazione di tutti per il suo amore alla giustizia. Nelle malaugurate lotte intestine di allora, i cittadini dei vari Comuni d’Italia si dividevano in Guelfi e Ghibellini. Corrado è di parte Guelfa, ma i suoi nemici politici non lo infastidiscono ne lo espellono in esilio come elemento indesiderato: la sua bontà invero è nota a tutti: i poverelli non ricorrono invano alla sua carità.

Corrado è un credente: ma iddio ha dei grandi disegni su di lui. I Santi sotto l’azione della grazia di Dio si preparano all’alta missione cui sono destinati, poiché la santità è grandezza e solo le cose piccole non si preparano. Attraverso i più svariati avvenimenti domestici e sociali, lieti e dolorosi, con lavorio lento e misterioso, Dio va maturando questo generoso cavaliere piacentino per l’istante solenne e decisivo in cui si slancerà con tutto l’impeto delle sue energie nelle vie della santità.

In Corrado insomma si tratta di distruggere in un colpo l’immensa distanza che corre tra il cristiano alla buona e l’eroe cristiano, tra il pellegrino pedestre e l’aquila dal volo sublime, tra Corrado l’onesto e Corrado il Santo!

Richiamiamo il fatidico incendio. Siamo nei dintorni di Piacenza e precisamente nella boscaglia dove Corrado caccia lietamente con una brigata di amici. Passano ore di infruttuosa fatica,perché il luogo è selvoso e pieno di cespugli, e la selvaggina è appiattata in densa macchia inaccessibile ai cani.

Per subitaneo pensiero proprio o imprudente suggerimento dei compagni, Corrado vi fa appiccare il fuoco per scovare gli animali nascosti. Ma levatosi un forte vento, il fuoco si dilata ben presto. Riuscito vano ogni tentativo o sforzo per spegnerlo o circoscriverlo almeno, Corrado e gli altri, afflitti e mesti, se ne tornano per vie diverse alla città. I nembi di fumo e il crepitio altissimo delle fiamme chiamano tutti gli abitanti fuori delle mura. L’opera dell’uomo è impotente a isolare l’incendio; e in breve il bosco, le case limitrofe, i vicini campi biondeggianti di messi, tutto è in preda del fuoco.

Era allora Governatore di Piacenza Galeazzo Visconti, in qualità di Vicario imperiale. Il fatto accadde probabilmente nell’estate del 1313. Pare che l’incendio, dovuto involontariamente alla giovanile imprudenza di Corrado Confalonieri, accadesse nel tempo che Galeazzo sta in timore di qualche movimento ed assalto dei Guelfi in esilio. Perciò al primo avviso datogli, il Governatore sospetta di uno stratagemma militare per attirare le milizie fuori della città o almeno che sia un segnale ai Guelfi di dentro. Manda i suoi uomini, e sorprendono un tale scampato miracolosamente a quell’uragano di fuoco, che fugge per l’aperta campagna. La fuga, il manifesto timore, il pallore, la confusione nel rispondere e l’incoerenza delle sue parole sono o sembrano indizi sufficienti, giusta gli usi d’allora, perché si proceda all’arresto e alla tortura. Questo barbaro procedimento, che non di rado giovava ai rei più robusti ed astuti per purgare, come dicevano, gli indizi che erano contro di loro, non serve questa volta che ad estorcere una falsa accusa: perché l’infelice si dice colpevole dell’incendio. Perciò viene condannato alla forca. Il reo, scortato, passa sotto al palazzo dei Confalonieri. Corrado, di cui nessuno sospetta, informato dell’esito di quel processo, non può soffrire nell’animo suo cristiano e nobile che un innocente sconti la pena della imprudenza sua.

Coll’animo agitato lo contempla dal balcone. Non regge più a quella vista, cede all’impulso del suo nobile cuore, e benché non tenuto ad accusare se stesso, scende precipitosamente le scale, si apre la via tra la folla, arresta il corte, e grida forte: “Slegate quell’innocente, restituitelo alla desolata famiglia. L’autore involontario del grande disastro è qui: sono io!”. Quel grido scoppia in mezzo all’attonita folla come un fulmine, e in mezzo ad un sacro silenzio si svolge allora una scena sublime tra gli agenti della forza che hanno ricevuto ordini perentorii e Corrado che vuole liberare l’innocente. Alla fine, dopo un lungo e aspro dibattito, l’eroico giovane vince la grande partita.

L’innocente è già in mano di Corrado che per tutelarne meglio la libertà e la vita lo custodisce nella propria casa. Va quindi al palazzo del Vicario imperiale, ove prima di lui sono già tornati gli esecutori. Trova Galeazzo Visconti molto irato. Ma Corrado con franchezza e insieme con rispetto e prudenza dice non aver agito per astio contro il magistrato e la giustizia, ne intende sottrarre un imputato alla pena. Perciò lo tiene custodito in casa sua agli ordini dell’autorità. Ha agito così per toglierlo lì per lì agli esecutori, per acquistar tempo da mettere in chiaro l’innocenza di quell’uomo, e risparmiare al magistrato un rimorso tardivo e infruttuoso d’essersi ingannato nel giudicarlo. E narrando per filo e per segno quanto gli è accaduto nella partita di caccia, sui accusa chiaramente di imprudenza e prova l’innocenza di quell’innocente malcapitato. Galeazzo non lo condanna, in quanto Corrado è gentiluomo; e anche perché Corrado si spoglia volontariamente di tutti i suoi beni per risarcire i danni.

 

L’addio

 

Dinanzi a una sventura domestica come questa, il cristiano degenere avrebbe rivolto contro la Provvidenza la lingua blasfema, ma Corrado, nato a grandi cose, valica i confini, troppo angusti per lui, della rassegnazione cristiana.

La sventura scrutata da lui col suo sguardo di aquila, gli impenna le ali a voli eccelsi. Come il genio trova negli incidenti della vita, che passano come semplici fenomeni sotto lo sguardo dell’uomo ordinario, il substrato della grande filosofia, così Corrado in questo rovescio di fortuna trova il punto di appoggio per elevarsi ai principii generatori della grande santità. L’instabilità delle cose umane, la fragilità della ricchezza legata ad un filo sottilissimo, suscettibile di infrangersi al più piccolo urto, la facilità con la quale le posizioni sociali crollano in un’ora sola, le gioie più ambite che cadono infrante nel momento più bello, come i fantasmi d’un sogno dorato, il nulla delle lusinghe della vita, la grandezza delle cose eterne, sono verità tutte che in quell’ora decisiva della sua vita passano dinanzi alla mente di Corrado con la forza dell’evidenza. Giura con tutte le energie del suo essere di volere vivere unicamente per Dio.

Per un cuore magnanimo, per un spirito risoluto come quello di Corrado, risolvere è comunicare, dire  è fare! Quest’istante è solenne. La forza arcana della grazia lo ha mutato. E’ cosa mirabile che il giovane Confalonieri, rampollo di una delle più illustri famiglie lombarde, ricco di censo, nel pieno rigoglio dei suoi 29 anni, con la visione seducente delle cariche brillanti alle quali lo chiamano i suoi titoli, l’abilità personale, nonché il potente partito che lo fiancheggia, erudito da una sventura domestica, volga repentinamente l’animo alle cose dell’eternità.

L’ingresso di Corrado nel Terz’Ordine è segnato dai cronisti francescani all’anno 1315: e supponendolo anche avvenuto nei primi mesi di quell’anno, si vede che dal fatto dell’incendio è trascorso tempo sufficiente e alle operazioni occorrenti per il risarcimento dei danni e alla maturazione del disegno di abbandonare il mondo. Non è stata dunque un’affrettata risoluzione presa in un momento di fervore inconsulto, ma una fedele e tranquilla corrispondenza alla divina chiamata. E tutto il resto della non breve vita eremitica di San Corrado lo comprova.

 

Il Pellegrino

 

Eccolo sulla via dell’esilio. Solo, sconosciuto, senz’altra previsione che una fiducia illimitata in Colui che veste il giglio del campo e nutre gli uccelli dell’aria, chiuso in un ruvido saio e appoggiato il suo bordone egli pellegrina alla volta di Roma, ignaro della nuova Patria alla quale per vie misteriose la Provvidenza lo guida. Ma a Roma non vede il papa che si trova esula ad Avignone. Visita le Basiliche e i luoghi santificati dal sangue e dalle reliquie dei martiri, e prosegue il cammino.

Non è per desiderio di novità che salpa poi per la Sicilia, l’isola del sole, della poesia e degli incanti, ma anche dei santi Eremiti. Egli va in cerca di un punto lontano, ermo e solitario, dove gli sia consentito di vivere come fuori dal mondo con l’anima tutta in Dio e nella contemplazione delle cose celesti. Sicchè dei 36 anni di vita penitente, egli passa in Sicilia soltanto gli ultimi, quando consumato nella santità possiede il dono dei miracoli.

Gli viene indicata la Val di Noto, e senz’altro vi si incammina. Ma l’isola, sconvolta dalla furia della guerra con Napoli, vede nello straniero pellegrino un emissario del nemico, e non c’è sopruso, insulto e ludibrio che gli venga risparmiato; ed egli, solo in terra straniera, senza un parente, un amico, non solo conserva la calma solenne di chi guarda dall’alto tutti gli avvenimenti della vita, ma si osserva da tutti con meraviglia che in lui l’odio infiamma l’amore, gli oltraggi affrettano i benefici, il dolore genera la gioia. Volendo passare da Palazzolo, alcuni cattivi l’accolgono malvolentieri e gli aizzano i cani appresso. Giunge Corrado affranto ma salvo, a Noto. Questa città non è come le altre. Qui non si sente straniero, e vi entra col cuore in tumulto, come un esule che rivede la Patria, come un padre che torna in mezzo ai suoi figli. Siamo nel 1343.

All’ospizio dei pellegrini detto di San Martino, trova alloggio e serve anche gli ammalati mendicando quanto basta a mantenersi in vita. L sua modestia e bontà gli concilia la stima di Giovanni Mineo che ha cura dell’Ospizio. E vedendolo desideroso di solitudine, lo consiglia di andare da Fra  Guglielmo Buccheri alle “Celle”, presso la chiesa del SS. Crocifisso, in prossimità del castello di Noto.

Fra Guglielmo, notinese, era vissuto tra gli Ufficiali della corte di Federico III d’Aragona: sposato ebbe un figlio di nome Pietro. Va Guglielmo un giorno col Re al bosco dell’Etna a caccia. Azzannato da un cinghiale, che scovato del Re si era precipitato sul cavallo e su di lui, ne rimane malconcio e in fin di vita. Trasportato a Catania, Sant’Agata in sogno gli promette la guarigione se, lasciando di servire il re della terra, vorrà dedicarsi al servizio del Re del cielo. Federico III a malincuore gli permette di lasciare la sua corte, donandogli una forte somma in oro, che Guglielmo dona assieme ai suoi abiti ai poveri, e le “Celle” del castello di Noto, dove vive santamente da Eremita, finché si trasferisce poi per volere celeste a Scicli a ravvivare l’antica fede per Maria SS. Addolorata. Muore novantenne nel 1404. Paolo III lo beatifica nel 1537, divenendo così patrono di Scicli.

 

L’Anacoreta

 

Qui comincia il periodo che chiameremo”classico” della vita di San Corrado. E’ tutta una serie di meraviglie, che ti riempiono l’anima e ti esaltano. Fra Guglielmo lo accoglie fraternamente, gli assegna una povera cella presso la sua e un po’ di fieno per letto. Di ciò Corrado è contentissimo, e nel tempo che ivi passa stringe tale intimità con Guglielmo, al quale torna poi vantaggiosa consentendogli di apprendere alla scuola di Corrado il segreto della vera santità. E Scicli deve il suo fulgido astro al Sole di Noto.

Intanto i fiumi di sapienza celeste che fluiscono dal suo labbro, nonché lo splendore dei suoi esempi e dei suoi portenti lo hanno fatto conoscere nella sua vera luce. L’anima del popolo che intuisce lo ha già caratterizzato. Egli non è più il povero pellegrino, nemmeno il compagno  e discepolo di Guglielmo, ma il Santo.

S’accresce pertanto il numero dei visitatori e ammiratori. Pietro Buccheri, il figlio di Guglielmo come alcuni altri dediti al mondo, on vede di buon occhio il nuovo compagno del padre, né che egli ne segua l’esempio in una forma di vita austera e penitente. Quest’animosità non turba Corrado, bensì dispiace all’umiltà sua l’ossequio degli altri; e gli pesano tante visite che gli interrompono le meditazioni e le preghiere. Egli brama la solitudine e anela a maggior austerità ed asprezza di vita. Ed eccolo fuggire inosservato nella famosa grotta dei Pizzoni, la quale passerà alla posterità con il nome di “Grotta di S. Corrado”. Essa s’interna ai piedi di un’aspra roccia che sembra fatta per predisporre lo spirito ad inabissarsi nella meditazione delle cose eterne. Lasciamo che Corrado la santifichi con la sua presenza e l’illustri coi suoi portenti, e il ruvido speco si trasformerà in uno dei santuari più famosi dell’Italia, meta di innumerevoli pellegrinaggi. Tutto contento vi passa in preghiera e digiuno i primi due giorni: poi va ad elemosinare un po’ di pane e torna alla grotta. Questa da allora in poi è la sua vita. Viene a Noto per l’adempimento dei doveri di religione; ogni venerdì va alla chiesa del Crocifisso. Le sue giornate trascorre solitario al suo romitaggio nella orazione, nelle penitenze e nel lavoro. L’unione con Dio è l’aspirazione della sua vita.

Appende alla parete della caverna un crocifisso; per letto, tavolo, sedile gli basta il piano sassoso della grotta. Per suppellettili, una zucca seccata per tenervi un po’ d’acqua e pochi arnesi per andar coltivando quel terreno deserto. Lo scarso pane lo chiede in elemosina il sabato a Noto ed Avola. Oh, se quella grotta potesse parlare, quali meraviglie non si svelerebbero al nostro sguardo! Noi vedremmo Corrado nel’ambiente divino delle estasi, delle visioni di cui il cielo lo favorisce: nella ruvida grotta teatro di tante meraviglie, noi ammireremmo un riflesso del cielo, un prolungamento del Paradiso!

Bartolo Longo, notaro, vuol mandare all’amico Corrado un paio di fiaschi di vino. Il servo cammin facendo pensa tra sé che all’eremita può bastarne uno; l’altro lo nasconde tra i cespugli. “Dov’è l’altro fiasco che hai nascosto?” gli domanda scrutandolo negli occhi fra Corrado. “Bada – replicò poi – che una serpe vi sta sopra: che non ti morda quando lo pigli!”.

Andando un devoto a visitarlo è sorpreso da repentino temporale. Si nasconde in una grotta e vi si addormenta. Fra Corrado vede in spirito l’imminente pericolo di colui e, pregando và a svegliarlo. Dopo pochi momenti un fulmine colpisce la grotta: l’avrebbe incenerito.

Nicola Vassallo vuol mandare al buon eremita una forma di cacio, ma la moglie sostiene sia sufficiente metà. Il Vassallo insiste, e il figlio si presenta alla grotta con la forma intera. Fra Corrado divide il formaggio dicendo al giovanetto: “Questa metà è di tua madre e questa di Gesù Cristo”. Pensa una volta l’Anacoreta di staccare dalla sua grotta un masso ingombrante, e chiama in aiuto dei giovani. Quando questi vedono di quale pietra si tratta gli dicono che è impossibile a sì poche braccia di smuoverlo. Ma Fra Corrado fiducioso in Dio, fatto il segno della croce, li prega di provar visi; ed egli da una parte, gli altri dall’altra vi riescono con mirabile facilità. Rientrato nel’antro, nel quale essi hanno visto non esservi nulla, ne porta fuori pani caldi, che distribuisce. I giovani restano attoniti al doppio prodigio. Ed uno di essi anzi vuole ad ogni costo rimanere col Santo come eremita, ma non sa poi perseverare nel buon proposito.

“Padre – lo prega un giorno un amico – io voglio che oggi veniate a mangiare a casa mia, ché ho comperato dei pesci; vi prego per carità di venire” . E il Santo: “Dio rimeriti la vostra anima per tale carità; ma non fa bisogno per oggi”. Alle insistenze gli dice che i pesci da lui comperati sono stati già preda del gatto. L’amico tornato a casa trova appunto per ciò in collera la moglie.

 

IL SANTO

 

Vediamo ora quale travaglio assiduo costi al nostro Santo la virtù, e soprattutto la virtù in grado eroico. Viene anche per lui la prova che, come crogiolo, lo purifica e rinsalda nel bene. Per due volte gli hanno regalato carne suina e di pollo: non solo non se ne ciba, ma per mortificare più a lungo la propria gola l’appende ad un uncino, che è nel mezzo della grotta. Dopo giorni i vermi l’hanno corrosa: la mette fuori della cella e dice forte a sé stesso: “O corpo, mangia la tua carne, e tu verme, mangia i tuoi vermi”.

Ma lo spirito del male non si dà per vinto e torna a dargli battaglia tanto che, per correggere una tentazione di gola per frutta primaticcia di fico, non dubita Fra Corrado, emulo di S. Benedetto, di avvoltolarsi ignudo tra i rovi. Il demonio scornato pensa se può ingannarlo in altro modo. Ma il Santo vigile atleta di Cristo, previene ogni subdola suggestione del maligno, imponendosi penitenze volontarie. Cammina scalzo con la tunica sulle carni. Si accosta ai Sacramenti. Suo confessore è il cappellano di S. Pietro il Nuovo, che scrisse la sua vita. Per evitare concorso di popolo, va a ricevere la Santa Comunione in città di buon mattino. In tempo di Quaresima non tocca pane, ma si ciba di legumi e acqua.

Un operaio netino, ricevendo visita dal Santo suo amico, gli bacia la destra e dice: “Compare insegnatemi qualche preghiera”. E Fra Corrado gli insegna la recita del Padre nostro e dell’Ave Maria.

Non c’è santità anche celebre che non trovi increduli e contraddittori, e vada esente dall’odio degli iniqui. Un venerdì, essendo come di consueto sceso a Noto, è con simulata devozione invitato da alcuni buontemponi a mangiare con loro un piatto di pesci. Accetta il Santo Eremita, ma la vivanda abilmente camuffata non è altro che carne di maiale. Finito il pranzo quei disgraziati si mettono a schernirlo perché ha mangiato carne di venerdì. “No!” risponde pacatamente il Santo; e alzato il tovagliolo con grande loro stupore mostra le spine e le lische di pesce rimaste.

Oltraggiato, vilipeso, bastonato a sangue da una masnada di giovani brutali, non pago di ringraziarli e di regalar loro pane manipolato da mano angelica, è il solo che li difende in giudizio per sottrarli, se gli riesce, ai rigori della legge e all’ira del popolo. La fama della santità giunse alle orecchie del vescovo di Siracusa, mons. Giacomo Orsini. Vuole egli rendersi personalmente conto della virtù dell’umile Eremita dei Pizzoni e dei prodigi da lui operati, e si reca un giorno a trovarlo nella sua solitudine. Il Santo non c’è, ed egli visita accuratamente la grotta d i luoghi circostanti. Giunge poi Fra Corrado. Dopo avere lungamente con lui conversato, il Vescovo lo invita a pranzare insieme. Il buon Eremita accetta, ma ritiratosi prima alcuni istanti nella sua cella, torna poco dopo con quattro bianche e calde focacce. Alle meraviglie del prelato, Fra Corrado si schermisce dicendo: “Non sono quello che voi pensate, ché io sono peccatore come gli altri. Questa cosa ha fatto Dio per sua grazia”.

 

IL TAUMATURGO

 

Piacque a Dio di far conoscere la santità del suo Servo fedele dandogli il dono dei miracoli. Come abbiamo visto, il Santo ringrazia i devoti visitatori, onora il suo vescovo ed i sacerdoti e perdona chi l’ha offeso, donando il pane miracoloso. Questa produzione prodigiosa di pane si ripete altre volte, specialmente in occasione della durissima e lunga carestia del 1349. “O padre – lo supplica uno stormo di ragazzetti laceri e affamati – donaci un poco di pane”. Il Santo che in quel frangente tutti accoglie e rifocilla, risponde commosso: “Sì figliuoli se a Dio piace. Aspettate qui”. Entra nella grotta, si mette in preghiera e subito gli arriva pane dal cielo, e a ciascuno di quegli innocenti dà una pagnotta calda. E’ un continuo chiedere e ottenere. Antonio Sessa, un giorno che Fra Corrado esce dalla chiesa del Crocifisso, lo invita a pranzo. A tavola, il Sessa è preso da acuti dolori. Il Santo lo anima a pazienza e si raccoglie in orazione. L’amico si sente guarito. La ricompensa che chiede il frate è il permesso di potersi cibare a modo suo: di solo pane e poche noci. Nel tornare alla sua grotta, guarisce col semplice segno di croce da un grave attacco di ernia il figlio di un sarto, nel quartiere Malfitania. Corrado, prima che il padre si accorga della guarigione del figlio, si allontana. Ma la fama del prodigio si divulga in un baleno e molti erniosi e malati ricorrono all’intercessione del Santo Eremita. Anche Pietro Buccheri, il figlio di Fra Guglielmo, che l’aveva tacciato di “ipocrita”, convinto dal padre, ricorre al Santo per essere guarito da febbri perniciose.

Vuole Fra Corrado ricambiare la visita al Vescovo di Siracusa, e vi si reca. Dinanzi all’Episcopio uno stormo di uccelli, garrendo, gli vola attorno. Quel lieto saluto degli uccelli a Corrado si replica altra volta in vicinanza di Avola: un viandante ne sparge la voce ad Avola e a Noto.

Un giorno di digiuno, un suo devoto gli manda con il figlio un po’ di legumi. Nelle vicinanze della grotta però gli appare il demonio in sembianze umane, che lo svia per una rupe scoscesa e isolata: e dispare. Vistosi sul precipizio il piccolo, spaventato grida forte. Fra Corrado, che sta pregando, vede in ispirito il fanciullo ingannato dal demonio, corre subito, e trovatolo che piange, lo guida sino alla valle e alla sua grotta.

 

IL CELESTE PATRONO

 

Giunge il tempo che Corrado, compiuto il corso di sua vita mortale, deve passare al premio eterno. Ne ha intero e sicuro avviso. Per cui si reca per l’ultima volta a Noto per ricevere i sacramenti e prega il confessore suo a venire dopo due giorni alla grotta. Così fa il sacerdote. Corrado gli svela l’imminente suo trapasso, gli preannunzia che sarebbe sorto conflitto tra quelli di Noto e Avola per avere il suo corpo, ma che non si sarebbe sparso sangue; e gli chiede sepoltura nella chiesa Madre di S. Nicola a Noto. Detto questo si pone in ginocchio e prega. Fissa le pupille in un punto del cielo. E’ estasi? Così crede il confessore che ha la sorte invidiabile di assistere a quella scena sublime. Si avvicina, compreso dal più sacro rispetto; lo palpa, lo chiama con voce commossa: il cuore non batte più.

E’ il 19 febbraio dell’anno di grazia 1351.

Le campane di Noto e di Avola suonano da sole a distesa. E’ morto Fra Guglielmo, l’eremita delle “celle”? Disingannati tutti corrono ai Pizzoni  dove infatti trovano il corpo del santo Anacoreta in ginocchio e per primi lo venerano. Volendolo portare subito a Noto, si avvera tra di loro e quelli di Avola, che intanto sopraggiungono, il conflitto predetto dal Santo, conflitto che non finisce in strage, per manifesta sua protezione. Durante il tragitto sono tante le guarigioni di storpi, erniosi, ciechi e di vari malati, che le autorità si affrettano a fare regolare processo, interrogando testimoni e miracolati.

Il Sommo Pontefice Leone X nel 1515 permette che ogni anno il 19 febbraio se ne celebri la festa! Paolo III la estende alla Sicilia; Urbano VIII il 12 settembre 1625 concede a tutti gli ordini francescani di celebrare la festa di S. Corrado con Messa e Ufficio proprio.

19 febbraio 1351! Il Santo partendo ci lascia uno splendido solco di luce che ne perpetua nei secoli la memoria. Egli vive sempre con noi nelle sue virtù, nel suo eroismo, nei suoi portenti. Da quel giorno la storia di Noto si confonde con quella di S. Corrado. E’ una gara incessante tra protetti e Patrono. Basterà il suo nome e il fulgore dei suoi prodigi a mantenere la Fede sempre viva negli animi. I Netini, in qualunque punto della terra vadano, lo portano con sé e ricorrono a Lui in ogni bisogno. E certamente il giorno in cui il notinese perdesse la fede, cesserebbe di essere figlio di S. Corrado e di Noto.

La protezione speciale del Santo per la città di cui è Patrono ha continuato a manifestarsi attraverso i secoli e la attestano i solenni atti della popolazione riconoscente. Fra questi ricordiamo la processione di ringraziamento decretata dopo la cessazione del colera nel 1855; il voto fatto dalla Città nel 1943, coll’approvazione dell’autorità religiosa, del digiuno nella vigilia della festa e dell’offerta annuale di un cero, il 19 febbraio, se la città di Noto venisse risparmiata dai bombardamenti durante la guerra, voto che si adempie ogni anno con apposita suggestiva cerimonia.

Il suo corpo, composto in una artistica Arca d’argento nella Cattedrale di Noto, è venerato per continui miracoli. La mano sinistra con parte del braccio fu donata dalla cittadinanza netina alla Cattedrale della sua natia Piacenza.

Concludendo, una sola cosa ci permettiamo rammentare ai devoti di S. Corrado Confalonieri.

Il migliore modo di onorarLo e propiziarsene il patrocinio è di imitare le virtù, fuggire il peccato, essere buoni amando Dio e il prossimo, esercitarsi nella pazienza e pensare che non siamo creati per la terra, ma per il cielo.

 

D. Salvatore Guastella

Noto, 1955

       Reliquia del Santo Braccio, Noto

 

 

     

    

 

 Urna del Santo

processione di un secola fa

 

 

 

 

 

 

 

Urna d'Argento

contente il Corpo del Santo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Armadi con ex-voto

nel Museo presso il

Santuario Fuori le Mura

a Noto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Grotta nel Santuario

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

nella foto: l'Autore di questa

VITA del Santo Eremita,

mons. Salvatore Guastella,

la scrisse nel 1955

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

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